TESTI
CRITICI
Il pittore Massimo Lorenzo Petrucci lavora sulla parola, la ascolta, la interiorizza, la elabora e la traduce in segni pittorici, in poesia cromatica. Petrucci assume su di sé la voce della contemporaneità, la storia scorre e viene riprodotta nelle sue opere, dove prende vita in forme multicolori, in microcosmi azzurri, paesaggi sociali, religiosi e umani. Le tecniche pittoriche e i supporti scelti da Petrucci guardano alla tradizione e alla grande arte storica, ma si aprono al mondo odierno e ne incorporano gli elementi oggettuali. Nel suo studio i simboli e gli strumenti del progresso tecnologico, del consumismo, dell’evoluzione storica sono svuotati di senso e funzione e osservati con gli occhi innocenti di chi guarda al mondo per la prima volta. È così che tali oggetti diventano il teatro delle costellazioni minute e colorate di Petrucci, che con i suoi acquerelli e tempere ricostruisce la storia umana da punti di vista inediti, inaspettati, da occhi sbalorditi.
Arch. Lorenzo Romito
Come per il
mitico re Mida ogni cosa che toccava si trasformava fatalmente in
oro, così per Massimo Petrucci ogni pensiero si articola e prende
immediatamente corpo in immagini, onde d’urto colorate e
architetture visive.
La storia mondiale e gli eventi locali, il
tessuto e la vita della città, le religioni e i fatti della
politica, le trasformazioni sociali e i prodotti commerciali,
personaggi famosi e personaggi inventati (come nel meraviglioso
teatrino abitato dai Minions), parole numeri segni e segnali: tutto è
aspirato e accolto nelle sue visioni e resta intrappolato, “all
over”, nei suoi dipinti.
Una cartografia fantastica, una scrittura
prima della scrittura, anche quando nei suoi lavori è possibile
leggere intere frasi o parole isolate, spesso giocosamente
“lavorate”, con humor e ironia, con allegria o sgomento.
Per
questo le sue tele, e gli altri supporti su cui opera (vetro, legno,
scarti d’arredamento, oggetti trovati) si riempiono fino
all’inverosimile, disponendo in un caleidoscopio la materia del
mondo e le sue domande senza risposta.
Questo magnetismo esercitato
dai suoi lavori nei confronti di tutti i frammenti della vita –
interna ed esterna, senza un’interposizione di barriere
impermeabili – è però anche un modo di accoglierla in sé, di
darle un ordine e una casa, forse un riscatto e una salvezza.
Ogni
porzione dei suoi dipinti sembra racchiudere piccoli cosmi, spazi
abitati da monadi, talvolta incontenibili nel perimetro della tela,
altre volte abbracciati e contenuti all’interno di cornici dipinte,
bolle o anelli incantati.
Queste opere così traboccanti di vita,
così piene – dove l’inconscio coabita sullo stesso piano della
materia e dei segni - sono altrettanti inviti, rivolti a chi le
osserva, a condividere gli interrogativi, i desideri, le fantasie, le
ferite e le contraddizioni che in esse prendono corpo: una domanda di
ascolto, di dialogo.
Un mettersi generosamente in gioco, da parte
dell’artista, che è un’affettuosa richiesta, rivolta agli
spettatori, di partecipare al gioco proposto e di interrogarsi sui
suoi enigmi.
Stefano Velotti
“Segni e non SOGNI”
diceva Licini
…
La didattica dell’immaginazione: questo prova a fare un giovane artista che vede l’arte più viva che mai. La vede come territorio della didattica (“ce qui manque à nous tous” come diceva Engels e come diranno i Surrealisti) del confronto tra pensare e disegnare, cioè tra progettare e agire, ma anche per fortuna come discorso allegro e molto poco mitico. Oggetto che diventa concetto, soggetto che pensa disegnando e disegna pensando: alchimista tornato nel labor-oratorium con poche preghiere e un po’ di lavoro in più.
Si può dipingere il silenzio, si possono far parlare i pesci, si può disegnare una lingua mentale, si può immaginare l’immaginazione.
E così, il segno si carica (già, proprio nel senso di caricatura) di imprevedibili sottofondi e moltiplica i sottintesi (il veggente vede la visione in modo visionario) il paradosso diventa regola.
Oggi che diventa sempre più necessario scoprire piuttosto che inventare, i fogli di un giovane filologo di Babele dimostrano quanto sia casuale la necessità oltre che necessario il caso. Questo lungo discorso logico-filosofico in forma di diario esplora alcune possibilità d’un tempo post-gutemberghiano, mettendosi come primo spettatore davanti al camino, divagante ma graffiante della penna al lavoro. Petrucci assiste alla garbata cerimonia di un matrimonio tra segno e immagine, tra “piacere del testo” e iconoclastia.
Maurizio
Fagiolo dell’Arco
COLLEZIONE “ART BREAK CLUB”
L’immagine che MassimoLorenzo Petrucci ci propone è ancora un’immagine della città. Non ci sono le strade, le luci, i palazzi, ma è comunque un’immagine della città.
Capire una città vuol dire viverci, descriverla vuol dire risponderle. Non si può rappresentare una città così come si rappresenta un paesaggio; o si gioca il suo gioco o ci si ritrova altrove, magari a fantasticare di una natura che non c’è più. Una città, lo sappiamo, non è un luogo ma un insieme di eventi; così una tela o un disegno di Petrucci: non un racconto ma una tempesta di informazioni, non un ritrarre ma un indicare lo spazio e l’attimo in cui sta accadendo qualcosa.
Petrucci sembra non amare il passato, non ne parla mai. In realtà lo ama a modo suo, lo ama come specchio del divenire, come controcalco dei mutamenti progressivi attraverso cui si costruisce il futuro.
Fantascienza e culto del progresso, però, in tutto questo non c’entrano per nulla, così come non c’entra il fascino ambiguo della tecnologia elettronica capace solo di costruire relitti sempre più avanzati e sofisticati.
Il futuro non è altro che la religione della metropoli, l’unica religione che ancora unisce i suoi smaliziatissimi abitatori. A questo dio sacrifichiamo di continuo tutti insieme attraverso l’inevitabile coralità del linguaggio. Se il collasso dell’informazione è il nostro nuovo incubo, salvarsi l’anima oggi vuol dire essere in grado di riplasmare a ritmi sempre più serrati l’universo dei segnali e dei segni, saper disperdere ogni ingorgo di sostanza semiotica, saper svincolare dalle scorie incombuste del senso accumuli sempre più micidiali di energia pulsionale. Insomma, essere capaci di agire non più su questa terra ma in una dimensione impalpabile e quotidiana che ci sovrasta come cielo artificiale. Un cielo incredibilmente profondo attraversato da colori e bagliori mai visti, ogni giorno più belli.
ALIMENTAZIONI MENTALI
Nella serialità e massificazione del mondo odierno; di vissuti fatti di scatole, prodotti, slogan: “esercizi Quotidiani” di vivere sociale; alimentazione “fisica” di realtà bio-tecnologica del reale, si dispiega l’operato di Massimo Petrucci.
Gli Ovali progetti del pensiero, forme circolari a due fuochi, unità che includono diversità, polidinamiche plurime, sono il motore “vitale” del concetto neoplatonico di idea.
Le opere di Massimo Petrucci, conglomero di segni grafici, di linguaggi segnici, sono enucleazioni del pensiero, di un nuovo seppure “antico” linguaggio, un “nutrimento” per la mente e, come tale, rivelazione consapevole di idee di potenza, come manifestazioni in attesa di essere manifestate.
Ovali come spazi di libertà, dominati dalla pluridimensionalità dell’immaginario, una quarta dimensione in divenire da espletare come un “nulla”, trasparente e spaziale ma colmo di possibilità; gli ovali si affermano come motore-struttura dell’intelletto, libera espressione di pensiero, non più vincolato dalla forma, quest’ultima compenetrata e sublimata, ma immerso nella materia del colore, per espandersi e tradursi in “sentire pittorico” che è esercizio, contenuto ed emozione.
Le alimentazioni mentali di Massimo Petrucci rivelano la convivenza di intelletto ed immaginazione, di ratio ed emozione, di un’Arte – linguaggio – filosofia come “fetta” di tempo di una realtà non fisica, impercettibile eppure percepita.
Barbara Ponti Iozzi
I PAESAGGI di Massimo
Il paesaggio immaginario di MassimoLorenzo Petrucci prima di tutto profuma di libertà. La libertà che noi amiamo è quella che ci solleva dai bisogni del corpo e dello spirito. E si vede che Massimo questa libertà se l’è ritagliata e la difende.
Non esistono, infatti, nell’opera di questo artista romano vincoli di mercato o di scuola capaci di legare la sua mano, che scorre quindi sulla carta o sulla tela tracciando segni e stendendo colori che seguono itinerari semi automatici. Dico “semi” perché l’apertura sul profondo del sua ricerca non tende all’automatismo psichico più assoluto dei surrealisti di Breton.
Massimo ha un occhio aperto sulla realtà e uno sull’inconscio e l’incrociarsi degli sguardi monoculari contamina un immaginario che è, insieme, attuale e antichissimo, personale e collettivo, sociale ma anche immerso nelle suggestioni di una visione cosmica e naturalistica.
L’occhio dal quale la visione prende origine, le onde , i pesci e i riflessi, le necropoli dai sassi numerati e le antiche vestigia, i monitor e il profilo di barche issate su una montagna – tutto - il disordine di una frantumazione estrema recupera l’epifania di una sorprendente unitarietà.
E così ogni cosa ritorna all’unità con una freschezza che fa pensare al migliore dei Doganieri Rousseau possibile nei nostri tempi barbari.
Petrucci non ha e non tollera padroni. Per questo ci piace.
E la sua stravaganza trasognata è il miglior sigillo dell’ anarchia che lo guida.
Roberto Gramiccia
Massimo Lorenzo Petrucci, non è architetto ma è nato
in quello stesso clima
sensibile, artistico, umanistico, estetico, tecnico e creativo.
I suoi genitori sono, una madre amante l’Italia, e le democrazie anglosassoni, ed un padre architetto essenzialista, strutturalista e razionalista.
Le sue migliori opere,
quelle più capaci di una rappresentazione intima e quindi autentica, ci comunicano come tutto il creato “storico” e naturale abbia segnato l’animus di Petrucci.
Ha svolto brillantemente la sua carriera considerando l’architettura del mondo come il reale contenitore di ogni altra arte che occupi lo spazio con vero amore e cura per la vita, per i suoi motivi fondamentali (quasi eterni) e per i suoi incessanti cambiamenti, salti di qualità, mutamenti e aggiustamenti necessari all’espansione del progresso civile, umano e tecnologico.
Forse anche perché il fine dell’architettura è proprio il bisogno dell’uomo.
Un pensiero così fortemente emotivo e vasto quanto può essere sconfinata un’emozione e acuto come è solo un bisogno vero di comunicazione, libero da logiche inquinanti, fa nascere disegni e pitture, segni e colori, nel loro compiacersi di essere essi stessi, le basi di partenza del vocabolario di una libera immaginazione, svincolata da uno specifico valore d’uso, in quella grande libertà dovuta alla purezza del pensiero.
Le parole impresse nelle sue opere sono usate come colpi di colore, sono il segno della nuova era; oggi siamo sottoposti e condizionati da parole come iban, pin o password, ecco quindi come nei suoi lavori, spazio, tempo, storia ed emozioni sono tessuti insieme e, come un viaggio immaginario, attraverso percorsi spesso articolati ma raffinati, si arriva a vedere sentire conoscere
mondi ancora inesplorati.
Rosetta Angelini
Architetto - Art Director
PENSIERI PENSATI
IN POESIA DI COLORI
CHE SALGONO DALLE PROFONDITA'
E VANNO A FONDERSI
IN DANZA DI LUCE
DI UNA AURORA BOREALE.
"Massimo !
Poeta del colore.
Atto creativo in atto.
Caos.
Parola di Dio.
Volo di farfalla.
Grido di gabbiano ferito a morte.
I tuoi sono i colori del Creato.
Modigliani,
Van Gogh,
Chagall,
tuoi fratelli e compagni
sono contenti.
Che
Dio Ti protegga,
bel bambino
brontolone ed arruffone.
Gioiello eterno ! "
Sabato 10/03/2012 Giuseppe Rosario Ierfino